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LA SCIENZA DELLO STORYTELLING: COME SCRIVERE STORIE CHE INCANTANO IL CERVELLO

Per vari motivi tutti noi abbiamo bisogno di catturare (e trattenere) l'attenzione altrui. Spesso lo facciamo tramite una storia, che raccontiamo a qualcuno, che scriviamo in un romanzo, che facciamo diventare la sceneggiatura di un film o di una serie, che utilizziamo a fini pubblicitari o che adoperiamo per un articolo di divulgazione scientifica. 

Come si scrive dunque una bella storia? La risposta di Will Storr è: occorre basarsi sui meccanismi di funzionamento del cervello. A tutti noi piace leggere, ascoltare e vedere storie, ma non ci piace qualunque cosa. Ciò che ci colpisce è caratterizzato da aspetti specifici. D'altronde, "ciò che desideriamo, e gli alti e bassi della nostra lotta per ottenerlo, sono la storia di ognuno di noi, qualcosa che regala alla vita una parvenza di significato e ci fa distogliere lo sguardo dalla paura", scrive Will Storr nel libro: "La scienza dello storytelling - Come le storie incantano il cervello" (Codice Edizioni, 2020). 

In effetti, il nostro cervello è un narratore, anzi - per dirla con le parole dell'autore - "creare storie è il mestiere del nostro cervello". Occorre quindi scrivere in modo da piacere al cervello, innanzitutto creando un mondo, all'interno del quale porteremo in giro il lettore. L'inizio della storia non deve essere una data, perché il nostro cervello non è un computer: in principio deve trovarsi un momento di cambiamento. Questo perché il cervello mira al controllo dell'ambiente in cui si trova, e si desta quando percepisce un mutamento, che può essere un imprevisto o un fatto che ci pone in una situazione di rischio. Può trattarsi di un falso allarme, oppure può essere qualcosa di molto serio, che ci spinge immediatamente all'azione. Così comincia una storia.

Dopo che la storia è cominciata nel migliore dei modi, bisogna suscitare curiosità, fornendo un set di informazioni incompleto. Ciò in quanto il nostro cervello tende a completare il quadro con i pezzi che mancano. Se mancano pochi tasselli alla soluzione siamo spinti verso il fondo della storia, se non sappiamo nulla dell'argomento della storia oppure se gli indizi sono troppo pochi o troppo complessi, la molla della curiosità potrebbe non scattare. Se della storia sappiamo qualcosa, ma ciò che leggiamo viola le nostre aspettative, allora cerchiamo una spiegazione. Se sappiamo che qualcuno sa, andiamo a cercare lui. Alla fine tutto può ridursi ad un enigma, o comunque ad una domanda senza risposta.

Ci sono molti altri motivi per "imitare" nelle storie il comportamento del cervello. Ad esempio, noi non vediamo la realtà così com'è. In verità percepiamo un modello della realtà realizzato dal nostro cervello. Possiamo addirittura vedere cose che non sono sulla scena oppure non vedere cose presenti, in quanto non fanno parte del nostro modello. Più dettagli acquisiamo e più il nostro modello diventerà preciso, ma non sarà mai perfetto. Così come il cervello per noi costruisce un modello dell'ambiente che ci circonda, esso costruisce anche un modello del mondo che stiamo leggendo in un'opera scritta. Di conseguenza, se il narratore vuole essere più incisivo deve seguire quei movimenti che si verificherebbero nel modello del lettore. Servono quindi forme grammaticali attive e descrizioni accurate e precise.

Il cervello tende sempre a rispondere con un racconto, anche di fronte agli interrogativi più complessi. La schematizzazione prodotta è spesso basata su rapporti di causa-effetto e tali rapporti sono così naturali per il nostro cervello, che esso ne istituisce anche quando non ci sono. Di fatto, noi vogliamo comunque sapere cosa è successo, perché, e cosa succederà dopo. E' quindi evidente che, se le storie devono piacere al nostro cervello, esse devono contenere un certo numero di rapporti causa-effetto.

Il libro di Will Storr, peraltro, contiene molti esempi tratti da romanzi più o meno famosi, in cui quanto sopra scritto (e moltissimo altro) viene concretamente applicato. Ecco perché è un libro interessante da leggere: da una parte è molto fluido, come un'opera letteraria ben fatta, dall'altra ci insegna - in modo incisivo e divulgativo - parecchi aspetti del nostro cervello. Possiamo quindi capire non solo come deve essere scritta una storia per colpire il lettore, ma anche perché certe storie non ci sono piaciute ed altre le abbiamo amate fino a ricordarne interi passi a memoria. Inoltre, tramite l'analisi dei modelli utilizzati dal cervello, "La scienza dello storytelling" riesce anche a dirci qualcosa di più su noi stessi e sul nostro comportamento. Insomma, sappiamo tutti come andrà a finire - nel senso che moriremo - ma "la cura per l'orrore è il racconto". E allora... buona lettura a tutti!

Walter Caputo

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