Uno dei grandi misteri che ha affascinato e ha fatto passare
letteralmente notti insonni ad astronomi, geologi e
planetologi degli ultimi due secoli è come è nato e si è evoluto il Sistema Solare. Si, solo il nostro sistema planetario, perché fino al 1995, solo l'idea che potessero esistere altri mondi faceva ancora sussultare qualcuno sulla sedia. Ovviamente i più ritenevano che non fosse possibile che
esistese in tutto l'universo solo un sistema planetario, ma questa posizione non era
dimostrabile.
Ancora alla fine dell'ultimo millennio, ma anche oggi, qualche sostenitore del
principio antropico, ultimo retaggio dell'antico
geocentrismo, storceva la bocca all'idea dell'esistenza di altri mondi associata alla possibile esistenza di altre vite
intelligenti nell'universo. L'idea che potessero esistere altri mondi, detto meglio altri
sistemi planetari con una stella e dei pianeti che le orbitano intorno, in realtà non è molto antica. Era il 30 ottobre del 1938 quando
Orson Welles annunciò alla radio americana l'invasione dei marziani nella celeberrima "Guerra dei Mondi“, così alla fine degli anni quaranta, al massimo l’uomo poteva temere la presenza di forme aliene ostili provenienti dal pianeta Marte. Dopo il 1947, la risonanza mediatica data al caso
Roswell (New Messico), riaccese l’interesse nell’esistenza di vita
extraterrestre proveniente da pianeti esterni al sistema solare. Negli anni 60,
Carl Sagan assieme a
Frank Drake e ad altri, iniziarono un serio programma scientifico dedicato alla ricerca di vita
extraterrestre intelligente, il programma
SETI (
Search Extra
Terrestrial Intelligence)
tutt'ora attivo. Ma la vita per svilupparsi altrove ed evolvere aveva bisogno di pianeti non troppo dissimili dal nostro. Quindi
l’esobiologia, nata quasi
contemporaneamente al progetto
SETI, aveva bisogno di nuovi territori d'indagine. D'altronde anche
l'astrofisica e la
planetologia erano ormai consapevoli che gli elementi necessari allo sviluppo dei sistemi planetari e della vita potevano essere presenti ovunque, purché stelle
sufficientemente grandi e antiche avessero avuto abbastanza tempo per
sintetizzarli e
disseminarli con la loro esplosione (supernove), in modo da poter permettere la formazione precoce di generazioni stellari successive a partire da nubi di materia con una maggiore massa atomica media degli elementi.
M42, Nebula di Orione.
A destra sono visibili all'infrarosso delle nuove stelle dietro le nubi di gas e polveri
Elementi come l'idrogeno, l'azoto, il carbonio e l'ossigeno e tanti altri non meno importanti, ma sicuramente meno indispensabili per la nascita delle molecole preorganiche come H2, CO, NH3, sono disseminati in tutto l'universo. Quando questi elementi sono presenti in nubi gassose sono degli indicatori per il potenziale futuro sviluppo della vita in una certa regione dell'universo. Attenzione però che quando si parla di "futuro sviluppo" o di "potenziale vita", occorre stare attenti, perché se troviamo per esempio che in una certa regione dello spazio, in un certo ammasso stellare ci sono idrogeno, carbonio, ossigeno, e azoto a centomila anni luce da noi, al nostro tempo, quindi ora, la vita in quella regione dello spazio potrebbe essere anche nostra contemporanea, perché l'osservazione fatta risale in realtà allo stato delle cose di centomila anni fa.
Nube di Orione: Protostelle in formazione all'interno di un bozzolo di gas e polveri
Negli anni 90, l’
osservazione con l’
HST di protostelle nella nostra galassia, cominciò a far pensare alla possibile esistenza e formazione di pianeti in altri sistemi stellari. Anche se gli annunci delle scoperte di pianeti extrasolari si sono susseguite fin d
al 1963, solo nel 1995 ci furono le prime evidenze sicure di pianeti extrasolari. Il 5 ottobre 1995,
Michel Mayor e
Didier Queloz, dell'
Osservatorio di Ginevra, annunciano di avere scoperto il primo pianeta extrasolare di massa
paragonabile a quella di Giove attorno alla stella 51
Pegasi. L'
osservazione venne confermata pochi giorni più tardi anche dagli americani
Geoff Marcy e Robert
Butler.
Se consideriamo che i pianeti sono corpi che non brillano di luce propria ma solo riflessa dalla loro stella e che il loro diametro è migliaia di volte più piccolo di quello del disco stellare, possiamo capire come sia difficile osservarli, anche se il verbo "osservare" non è propriamente il verbo giusto per un pianeta extrasolare. Se è possibile osservare al telescopio ma anche a occhio nudo un pianeta del sistema solare, questo non è altrettanto possibile con un pianeta extrasolare. perché otticamente invisibili, almeno con certi metodi di osservazione tradizionali. Allora come si fa a sapere che attorno ad una stella orbitano dei pianeti?
I metodi sono sostanzialmente:
Astrometrico: consiste nella misurazione della posizione di una stella nel cielo e nell'osservare in che modo questa posizione cambia nel tempo. Se la stella ha un pianeta, allora l'influenza gravitazionale del pianeta stesso causerà alla stella un leggero movimento circolare intorno al comune centro di massa che si trasforma in una specie di vibrazione quando i pianeti sono più di uno.
Doppler:
le variazioni nella velocità con cui la stella si avvicina o si allontana dalla Terra in un suo moto orbitale intorno ad un centro di massa stella + pianeti possono far dedurre la presenza di un pianeta a causa degli spostamenti doppler verso il rosso e verso il blu di una linea dello spettro della stella. Attualmente questa è la tecnica principale usata dai "cacciatori di pianeti".
Metodo delle Pulsar: il residuo ultradenso di una stella che è esplosa in una supernova, ruotando emette onde radio a intervalli regolari. Le anomalie negli intervalli di emissione possono essere usate per tracciare cambiamenti nel moto della pulsar causati dalla presenza di uno o più pianeti.
Metodo del Transito:
se un pianeta transita davanti alla propria stella, allora è osservabile una riduzione della luminosità della stella eclissata. La variazione dipende dalla dimensione del pianeta rispetto alla stella. I pianeti extrasolari si distinguono dalle stelle variabili a eclisse dal fatto che nella curva di luce dei primi c'è un'unica variazione, nelle seconde invece le variazioni sono due perché entrambe emettono luce.
Microlente gravitazionale: l'effetto si verifica quando i campi gravitazionali di due corpi celesti cooperano per focalizzare la luce di una stella lontana. Se il corpo più vicino all'osservatore è il pianeta, significa che grandi dimensioni perché possiede un campo gravitazionale tale da contribuire all'effetto di microlente.
Il risultato decisamente più eclatante è aver potuto grazie alle fotografie scattate fin dal 1995 dall'Hubble Space Telescope, osservare - e questa volta il verbo è quello giusto - la nascita di nuovi sistemi planetari e da li capire una volta per tutte quale è stato per il Sistema Solare il meccanismo di formazione.
L'ipotesi avanzata già all'inizio del 900' da
Victor Safronov e ora confermata dalle
osservazioni, anche se per il Sistema Solare rimangono ancora alcune incertezze, si chiama
teoria dell'accrescimento dei planetesimi. La teoria applicata alla formazione di un sistema planetario extrasolare prevede una fase iniziale in cui si ha la formazione di un
protodisco planetario a partire da un residuo di polveri e materiale denso. Il gas e le polveri della nebulosa danno prima vita ad un nucleo
protostellare di gas compresso e caldo, che accrescendo
gravitazionalmente si trasforma in una stella solo quando la gravità nel nucleo è così intensa da innescare le reazioni di fusione dell'idrogeno. A quel punto la stella emette luce propria e mediante l'emissione di protoni dalla sua superficie, chiamata vento stellare, soffia
letteralmente via il bozzolo di e polveri e gas residuo che fino a quel momento l'hanno contenuta. Se il materiale non utilizzato non è solo gas, ma è pulviscolo di varie dimensioni che per effetto della rotazione della protostella intorno all'asse stellare si è radunato intorno ad un disco equatoriale che si
estente per uno spessore anche pari al diametro della protostella, il vento stellare allontana i materiali più leggeri lasciando sulle orbite p
iù basse il materiale con maggior densità. Nel frattempo il
pulviscolo inizia una fase di
aggregazione per urto, che lo porta ad diventare di dimensioni sempre più grandi, fino a richiamare a se
gravitazionalmente altro materiale. Questa fase di
accrescimento dura circa cento milioni di anni e termina quando tutto il materiale si è trasformato in oggetti chiamati
planetesimi di qualche chilometro di diametro.
Segni di impatti meteoritici su Deimos, la più piccola delle 3 lune di Marte.
A quel punto inizia una fase di bombardamenti meteoritici che dura fino a quando tutto il materiale dell'orbita è aggregato in pianeti. Per il Sistema Solare questa fase è iniziata da 4 a 3.5 miliardi di anni fa ed è ben visibile sui corpi senza atmosfera come la Luna ed altri grossi asteroidi sui quali sono osservabili le cicatrici lascite sulla superficie dall'impatto con gli asteroidi.
Il processo di accrescimento gravitazionale non termina però con la compattazione del materiale del disco in pianeti, perché la gravità tende a raccogliere tutta la materia che transita nella zona d'azione del pianeta facendola impattare sulla sua superficie, così, come negli ultimi mesi ben tre corpi, probabilmente asteroidi hanno colpito Giove, altri asteroidi NEO (Near Earth Object) che hanno orbite che intersecano quelle dei pianeti del Sistema Solare, potrebbero però impattare con la superficie terrestre - anche se con bassissima probabilità - provocando seri danni alla società umana, esistono perciò dei programmi di monitoraggio degli oggetti più a richio (LINEAR) che hanno lo scopo di ricercare e prevedere gli impatti, un po' come si fa per la previsione delle onde anomale oceaniche, gli tsunami.
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