L’EFFETTO FOTOELETTRICO DI ALBERT EINSTEIN
Talvolta un evento si verifica, e non c’è alcun dubbio che si sia verificato. Tuttavia, non si sa perché. E perché qualcosa accade può essere una scoperta molto importante, se non addirittura rivoluzionaria. Questa è proprio la storia dell’effetto fotoelettrico, che attirò l’attenzione dei fisici per la prima volta alla fine dell’Ottocento.
In quell’epoca si osservò un fatto davvero inusuale: la luce può produrre elettricità. Infatti, quando la luce ultravioletta (ossia a frequenza molto alta) colpisce la superficie di determinati metalli, può causare l’espulsione dal metallo di alcuni elettroni, ovvero particelle con carica negativa localizzate all’interno degli atomi. Ma, se la luce è un’onda con sufficiente energia, allora deve essere in grado di far saltar via dal metallo tutti gli elettroni. Se invece l’energia non supera una determinata soglia, allora l’onda non sarà in grado di smuovere neanche un elettrone. Questa era la teoria prevalente all’epoca, che – quindi – implicava l’espulsione degli elettroni in massa: o tutti o nessuno. Purtroppo gli esperimenti non erano coerenti con la teoria, in quanto nei laboratori si osservava l’espulsione soltanto di alcuni elettroni.
Nel 1900 Max Planck aveva condotto una serie di esperimenti sulla luce assorbita da un corpo nero (cioè un corpo che assorbe tutta la radiazione che incide su di esso). Da questi esperimenti risultò che l’energia posseduta dalla radiazione del corpo nero equivaleva al prodotto di tre fattori: “n”, “h” ed “f”. “n” è un numero naturale, cioè un intero positivo (0,1,2,3,…); “h” è la cosiddetta costante di Planck, che corrisponde ad un numero piccolissimo (6,63 · 10^-34 ); “f” è la frequenza. Ciò implica che l’energia possa variare solo nel discreto, poiché è sempre un multiplo intero di h · f: in termini tecnici, l’energia si dice “quantizzata”.
Einstein credeva all’equazione di Planck (E = n · h · f) molto più di quanto ci credesse lo stesso Planck, e quindi decise che la luce dovesse necessariamente avere un’energia quantizzata, dipendente solo da h e da f. Tale energia non è nient’altro che un insieme di piccoli pacchetti di luce, chiamati fotoni. Possiamo dunque pensare ad un fascio di luce come ad un fascio di particelle: ciascuna particella, cioè ciascun fotone, trasporta l’energia h · f. È proprio questo il “modello di luce” che Einstein utilizzò per elaborare una nuova spiegazione dell’effetto fotoelettrico, che fosse coerente con i risultati sperimentali.
Dobbiamo innanzitutto considerare che gli elettroni si trovano dentro gli atomi del metallo, quindi sono – in un certo senso – legati, un po’ come la noce è protetta dentro il suo guscio. Per estrarre una noce dal guscio occorre energia, così come ne occorre per estrarre un elettrone dal metallo. La minima quantità di energia necessaria per estrarre un elettrone da un determinato metallo, si chiama “lavoro di estrazione” (= W) di quel metallo. Il lavoro di estrazione varia da metallo a metallo, un po’ come varia il lavoro per estrarre noci da gusci più o meno robusti, ma esso è normalmente dell’ordine di pochi elettronvolt (= eV). L’elettronvolt è un’unità di misura dell’energia, così definita: 1 eV è l’energia cinetica acquistata da un elettrone accelerato da una differenza di potenziale pari ad 1 volt. Ogni corpo in movimento è caratterizzato da una ben precisa quantità di energia cinetica (= Ec ), proporzionale alla massa del corpo e al quadrato della sua velocità.
Ora, affinché un fascio di luce riesca ad estrarre elettroni, esso deve avere un’energia maggiore del lavoro di estrazione: in simboli matematici ciò equivale a richiedere una condizione del tipo h · f > W. Quella appena scritta non è nient’altro che una disuguaglianza, che però diventa una disequazione nel momento in cui poniamo “f” come incognita, posto che ci interessa conoscere la cosiddetta “frequenza di soglia” (= f0 ), vale a dire la frequenza al di sotto della quale non si osserverà mai fotoemissione di elettroni. Riprendiamo quindi la disuguaglianza h · f > W e spostiamo h a destra del segno di disuguaglianza (ciò implica un cambiamento di segno algebrico: dal prodotto al quoziente), ottenendo f > (W / h).
Se la frequenza del fascio di luce deve essere maggiore di W / h (affinché possa estrarre elettroni), allora la frequenza di soglia ( f0 ) sarà pari a W / h, cioè al rapporto fra il lavoro di estrazione e la costante di Planck.
L’interpretazione di Einstein dell’effetto fotoelettrico si accorda con i risultati sperimentali in quanto:
- per espellere elettroni, il fascio di luce incidente deve avere una frequenza maggiore di un determinato valore minimo, chiamato frequenza di soglia ( f0 ). Se la frequenza della luce è minore di f0 , non vengono espulsi elettroni, indipendentemente dall’intensità del fascio;
- nel modello di Einstein ogni fotone ha un’energia determinata unicamente dalla sua frequenza ( E = h · f , ma dato che h è una costante, possiamo sintetizzare matematicamente il legame con E = f (f), cioè l’energia è funzione solo della variabile frequenza. Mi perdoni il lettore l’uguaglianza fra simboli, ma credo che solo se il simbolo riproduce l’inizio della grandezza fisica a cui si riferisce, è facile da capire e ricordare), pertanto intensificare un fascio di una data frequenza significa soltanto aumentare il numero di fotoni che colpiscono il metallo in un dato tempo, e non incrementare l’energia trasportata da un fotone;
- Se f > f0 , aumentando l’intensità non varia l’energia cinetica (=Ec ) in quanto essa dipende solo da f. Infatti Ec = (h · f) - W (poiché l’energia acquistata dagli elettroni espulsi e messi in movimento è pari all’energia del fascio di luce incidente meno il lavoro di estrazione necessario per espellere elettroni), che si può sintetizzare con Ec = f (f), cioè l’energia cinetica dipende solo dalla variabile frequenza (d’altronde h e W sono costanti, cioè numeri dati).
Grazie alla spiegazione dell’effetto fotoelettrico oggi abbiamo le fotocellule negli ascensori e le celle fotovoltaiche nei pannelli solari. Siamo debitori nei confronti di chi, come Einstein, credette fermamente nelle proprie idee. Fino al punto di vincere il Premio Nobel per la Fisica, proprio per la scoperta della legge relativa all’effetto fotoelettrico. E i premi nobel per la Fisica 2009 sono andati a George Smith, Willard Boyle e Charles Kao: i primi due sono stati premiati proprio per l'invenzione dei sensori Ccd, che utilizzano la tecnologia basata sull'effetto fotoelettrico spiegato da Einstein.
In quell’epoca si osservò un fatto davvero inusuale: la luce può produrre elettricità. Infatti, quando la luce ultravioletta (ossia a frequenza molto alta) colpisce la superficie di determinati metalli, può causare l’espulsione dal metallo di alcuni elettroni, ovvero particelle con carica negativa localizzate all’interno degli atomi. Ma, se la luce è un’onda con sufficiente energia, allora deve essere in grado di far saltar via dal metallo tutti gli elettroni. Se invece l’energia non supera una determinata soglia, allora l’onda non sarà in grado di smuovere neanche un elettrone. Questa era la teoria prevalente all’epoca, che – quindi – implicava l’espulsione degli elettroni in massa: o tutti o nessuno. Purtroppo gli esperimenti non erano coerenti con la teoria, in quanto nei laboratori si osservava l’espulsione soltanto di alcuni elettroni.
Nel 1900 Max Planck aveva condotto una serie di esperimenti sulla luce assorbita da un corpo nero (cioè un corpo che assorbe tutta la radiazione che incide su di esso). Da questi esperimenti risultò che l’energia posseduta dalla radiazione del corpo nero equivaleva al prodotto di tre fattori: “n”, “h” ed “f”. “n” è un numero naturale, cioè un intero positivo (0,1,2,3,…); “h” è la cosiddetta costante di Planck, che corrisponde ad un numero piccolissimo (6,63 · 10^-34 ); “f” è la frequenza. Ciò implica che l’energia possa variare solo nel discreto, poiché è sempre un multiplo intero di h · f: in termini tecnici, l’energia si dice “quantizzata”.
Einstein credeva all’equazione di Planck (E = n · h · f) molto più di quanto ci credesse lo stesso Planck, e quindi decise che la luce dovesse necessariamente avere un’energia quantizzata, dipendente solo da h e da f. Tale energia non è nient’altro che un insieme di piccoli pacchetti di luce, chiamati fotoni. Possiamo dunque pensare ad un fascio di luce come ad un fascio di particelle: ciascuna particella, cioè ciascun fotone, trasporta l’energia h · f. È proprio questo il “modello di luce” che Einstein utilizzò per elaborare una nuova spiegazione dell’effetto fotoelettrico, che fosse coerente con i risultati sperimentali.
Dobbiamo innanzitutto considerare che gli elettroni si trovano dentro gli atomi del metallo, quindi sono – in un certo senso – legati, un po’ come la noce è protetta dentro il suo guscio. Per estrarre una noce dal guscio occorre energia, così come ne occorre per estrarre un elettrone dal metallo. La minima quantità di energia necessaria per estrarre un elettrone da un determinato metallo, si chiama “lavoro di estrazione” (= W) di quel metallo. Il lavoro di estrazione varia da metallo a metallo, un po’ come varia il lavoro per estrarre noci da gusci più o meno robusti, ma esso è normalmente dell’ordine di pochi elettronvolt (= eV). L’elettronvolt è un’unità di misura dell’energia, così definita: 1 eV è l’energia cinetica acquistata da un elettrone accelerato da una differenza di potenziale pari ad 1 volt. Ogni corpo in movimento è caratterizzato da una ben precisa quantità di energia cinetica (= Ec ), proporzionale alla massa del corpo e al quadrato della sua velocità.
Ora, affinché un fascio di luce riesca ad estrarre elettroni, esso deve avere un’energia maggiore del lavoro di estrazione: in simboli matematici ciò equivale a richiedere una condizione del tipo h · f > W. Quella appena scritta non è nient’altro che una disuguaglianza, che però diventa una disequazione nel momento in cui poniamo “f” come incognita, posto che ci interessa conoscere la cosiddetta “frequenza di soglia” (= f0 ), vale a dire la frequenza al di sotto della quale non si osserverà mai fotoemissione di elettroni. Riprendiamo quindi la disuguaglianza h · f > W e spostiamo h a destra del segno di disuguaglianza (ciò implica un cambiamento di segno algebrico: dal prodotto al quoziente), ottenendo f > (W / h).
Se la frequenza del fascio di luce deve essere maggiore di W / h (affinché possa estrarre elettroni), allora la frequenza di soglia ( f0 ) sarà pari a W / h, cioè al rapporto fra il lavoro di estrazione e la costante di Planck.
L’interpretazione di Einstein dell’effetto fotoelettrico si accorda con i risultati sperimentali in quanto:
- per espellere elettroni, il fascio di luce incidente deve avere una frequenza maggiore di un determinato valore minimo, chiamato frequenza di soglia ( f0 ). Se la frequenza della luce è minore di f0 , non vengono espulsi elettroni, indipendentemente dall’intensità del fascio;
- nel modello di Einstein ogni fotone ha un’energia determinata unicamente dalla sua frequenza ( E = h · f , ma dato che h è una costante, possiamo sintetizzare matematicamente il legame con E = f (f), cioè l’energia è funzione solo della variabile frequenza. Mi perdoni il lettore l’uguaglianza fra simboli, ma credo che solo se il simbolo riproduce l’inizio della grandezza fisica a cui si riferisce, è facile da capire e ricordare), pertanto intensificare un fascio di una data frequenza significa soltanto aumentare il numero di fotoni che colpiscono il metallo in un dato tempo, e non incrementare l’energia trasportata da un fotone;
- Se f > f0 , aumentando l’intensità non varia l’energia cinetica (=Ec ) in quanto essa dipende solo da f. Infatti Ec = (h · f) - W (poiché l’energia acquistata dagli elettroni espulsi e messi in movimento è pari all’energia del fascio di luce incidente meno il lavoro di estrazione necessario per espellere elettroni), che si può sintetizzare con Ec = f (f), cioè l’energia cinetica dipende solo dalla variabile frequenza (d’altronde h e W sono costanti, cioè numeri dati).
Grazie alla spiegazione dell’effetto fotoelettrico oggi abbiamo le fotocellule negli ascensori e le celle fotovoltaiche nei pannelli solari. Siamo debitori nei confronti di chi, come Einstein, credette fermamente nelle proprie idee. Fino al punto di vincere il Premio Nobel per la Fisica, proprio per la scoperta della legge relativa all’effetto fotoelettrico. E i premi nobel per la Fisica 2009 sono andati a George Smith, Willard Boyle e Charles Kao: i primi due sono stati premiati proprio per l'invenzione dei sensori Ccd, che utilizzano la tecnologia basata sull'effetto fotoelettrico spiegato da Einstein.
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